Domandate che sanno fare ancora le donne?

Mi regalò questa poesia stampata su un foglio A4 il mio professore di lettere nell’8 marzo della mia quinta ginnasio. Devo molto a quell’insegnante… molto di quello che mi piace nella donna che sono diventata. Per il resto, il più grande contributo a quella parte di me l’hanno dato sicuramente le donne della mia famiglia: mia madre, la prozia che mi ha fatto da nonna e mia sorella maggiore. Il fatto poi che abbiano anche un posticino nell’altra parte, in quella che non amo molto, è solo un dettaglio. Oggi questa poesia è per loro. E per tutte le donne, soprattutto per quelle che soffrono e lottano per costruire un mondo migliore. Un mondo che non abbia bisogno di celebrare l’8 marzo.

Domandate che sanno fare ancora le donne?
Ma tutto!

Se qualcuno distende sopra un abisso
tre fili di paglia,
vi passano sopra con piede leggero.
Come, non so spiegare,
ma ricordate
che i loro piedi hanno inventato la danza.

Nei momenti liberi
lavorano a croce per il bosco nero
le foglie di felce.
Se però capitano nel bosco di notte,
spengono con coraggio le fiammelle fatue,
affinchè neppure negli aquitrini il viandante
abbia timore.
Hanno anche consigliato ai timidi fiori
di riempirsi di calici
del familiare profumo.
Loro stesse sanno però come di spada
far uso di profumi
pericolosi ancor più
che gli scorpioni velenosi dei tropici.

Quel che è davvero straordinario:
hanno inventato i seni,
ed essi sono belli
come i castelli sulla Loira.
Forse più belli ancora.

E che sanno fare gli uomini?
Non è molto
Si sono inventati la guerra,
la miseria, la disperazione e il gemito dei feriti.
Sanno forgiare folli cannoni,
ridurre città in macerie,
e intanto mettono bene in mostra
il povero coraggio virile.

Hanno inventato le pompe di benzina
e l’emancipazione delle donne.

e in cambio di baci fra le loro braccia
hanno progettato per loro sedili speciali
perchè possano stare ancora
alle macchine
nell’ultimo mese di gestazione.

Così è.
Ed è tutto, arrivederci adieu.
Volevate una cantilena da me
e ora c’è

(J. Seifert, premio nobel per la letteratura 1984)

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